Oriente e Occidente tra geografia e ideologia

di Daniele Perra

Il tempio è sacro perché non è in vendita”, tuonava Ezra Pound nei suoi Cantos. Ma cos’è il tempio? Qual è il suo significato metastorico di questo termine? La parola templum in latino indica lo spazio sacro, orientato e suddiviso. Esso può riguardare sia lo spazio terrestre (il recinto di un santuario, di una città o di un’acropoli) sia il cielo o, addirittura, una superficie assai più piccola come le viscere di un animale utilizzato per le pratiche divinatorie. In ogni caso, si rende necessaria la presenza delle condizioni legate all’orientamento ed alla partizione dello spazio secondo il modello celeste (l’archetipo sacro che si trova all’inizio dei tempi).

Dal termine latino templum deriva il verbo “contemplare” (intrinsecamente connesso al lessico sacerdotale) che esprime l’osservazione dei segni che appaiono nel cielo suddiviso dall’augure in quattro regioni. Egli, “ritto all’esterno del lato occidentale dell’auguraculum previamente consacrato, volgeva lo sguardo verso Oriente1. Da Oriente, infatti, provenivano i segni detti familiaris: ovvero, favorevoli. Mentre da Occidente giungeva tutto ciò che veniva ritenuto infausto ed ostile.

L’antico rito della spectatio, per quanto diffuso tra tutti i popoli indoeuropei, avveniva con modalità differenti. In Italia, come evidenziato dai riti augurali compiuti da Romolo sul Palatino prima della fondazione di Roma, si usava rivolgersi verso Meridione in modo da suddividere il cielo in pars antica (sud), pars pòstica (nord), pars sinistra (est), pars dextera (ovest). I segni che provenivano da sinistra (Oriente) testimoniavano il favore di Giove, soprattutto se si trattava di tuoni e folgori (eventi atmosferici strettamente connessi al Dio supremo come testimonia il Frammento 64 di Eraclito “il fulmine governa ogni cosa” inciso sulla porta della baita di Martin Heidegger nella Foresta Nera).

I riti della Cina imperiale richiamano in qualche modo il sistema di suddivisione celeste dei popoli italici. L’Imperatore, infatti, all’interno del suo palazzo costruito ad immagine celeste ed ubicato in un luogo che per la convergenza di climi e fiumi doveva necessariamente rappresentare un Axis Mundi (luogo di incontro tra cielo e terra), accoglieva i suoi vassalli con lo sguardo rivolto verso sud, con il nord alle sue spalle. Di conseguenza, aveva l’est alla sua sinistra (lo Yang) e l’ovest alla sua destra (Yin). La sinistra e l’Oriente sono il Capo, il Cielo, il Sole sorgente e vittorioso. La destra è il Ponente: la terra. Essa è il Femminile, l’autunno e il raccolto. Mentre la Sinistra è il Maschile, l’attività politica, militare e religiosa. Così, l’Oriente è dominato dall’influsso dello Yang ed il Ponente da quello dello Yin. Laddove Yin e Yang, basso e alto, terra e cielo, oscurità e luce, femminile e maschile indica(va)no aspetti antitetici delle categorie di Spazio e Tempo espresse in modo esclusivamente qualitativo e non quantitativo. Dopo aver trascorso quattro anni ad accogliere i vassalli, l’Imperatore rendeva le visite svolgendo un giro completo dello spazio imperiale consacrato che lo portava a trovarsi ad est in primavera (l’istante della rinascita), a sud d’estate (l’istante della contemplazione), ad ovest in autunno (l’istante del decadimento), a nord d’inverno (l’istante in cui si pongono le basi per la ricostruzione).

Tale idea, secondo Guido de Giorgio, si può esprimere attraverso il simbolismo della croce. Alle estremità della linea verticale sono poste l’alfa (il nord) in alto e l’omega (il sud) in basso, mentre la linea orizzontale ha l’occidente a destra (la morte, il declino) e l’oriente a sinistra (la nascita, la luce). Il moto tradizionale si muove dal nord verso l’est. Il nord rappresenta la Tradizione primordiale. “Al di sopra quindi di tutte le forma tradizionali – afferma il pensatore della “rettificazione dell’Europa” – vi è la Tradizione primordiale, come al di sopra di ogni manifestazione divina vi è Iddio in cui si attualizza in sede universale ciò che nelle tradizioni particolari è presentato come destinato a popoli e razze determinate in un complesso fisso che contiene, oltre ad un visione definita del divino, vari mezzi per realizzarla efficientemente2. L’Oriente è la luce, il luogo tutt’ora più vicino alla Tradizione primordiale: ovvero, il luogo in cui gli uomini, per la minore distanza che li separa dall’origine divina, sono capaci di riconoscere meglio di chiunque altro la verità. Il sud è associato alle forme tradizionali ormai estinte, mentre l’Occidente è inevitabilmente sinonimo di decadenza. Teorico di una “romanità integrale” di cui vedeva Dante Alighieri come massimo esponente, non sorprende che De Giorgio fosse anche fermamente convinto del fatto che Roma (centro sacro di due tradizioni religiose differenti entrambe giunte da Oriente) rappresentasse in qualche modo “l’Oriente dell’Occidente”. Tuttavia, la sua impostazione teorica (elaborata nella prima metà del Novecento), insieme al celebre invito dannunziano ad abbandonare l’Occidente, risentiva in modo determinante dell’influsso della Modernità europea, per quanto fondata su presupposti “tradizionali”.

Tornando all’area mediterranea, non è fuori luogo riportare il fatto che le cosiddette “tombe dei giganti” della Sardegna (a forma di testa di toro, simbolo solare per eccellenza) abbiano sempre l’ingresso verso Oriente: ovvero, verso il sole nascente. Per ciò che concerne le differenze nel rito augurale, invece, è bene sottolineare che per i Greci (ed anche per i Celti) risultavano favorevoli gli auspici che si mostravano da destra e sfavorevoli quelli che apparivano a sinistra. Ciò avveniva per il semplice fatto che essi volgevano lo sguardo verso nord per cui l’Oriente (parte favorevole) coincideva automaticamente con la parte destra dello spazio suddiviso e consacrato.

A questo proposito, è abbastanza curioso notare come oggi si cerchi di indicare il mondo greco come il fondamento dell’odierna “civiltà occidentale”. Ad onor del vero, non vi è nulla di più sbagliato. O meglio, sarebbe più corretto affermare che la “civiltà occidentale” odierna rappresenta un’estremizzazione radicale di tutti gli aspetti decadenti che si erano già manifestanti nella civiltà greca ed ai quali gli stessi Antichi avevano cercato di porre rimedio.

Già Esiodo suddivideva il ciclo attuale della storia umana in cinque età. La prima (quell’età dell’oro in cui gli uomini, come riporta Arato nei Fenomeni, si tenevano lontani dall’arduo mare e non avevano bisogno delle navi per procurarsi di che vivere) si concluse con la diffusione delle tribolazioni tra gli uomini a seguito dell’inganno prometeico. All’età dell’oro fanno seguito quella dell’argento (in cui la natura umana si manifesta in tutta la sua “orgogliosa tracotanza” rifiutandosi, tra l’altro, di compiere i riti religiosi) e quella del bronzo. A ciascuna di questa età corrisponde una particolare stirpe umana. Quella “bronzea”, ad esempio, risulta particolarmente bramosa di ricchezza e potenza. Tuttavia, la decadenza umana subisce un breve arresto grazie all’insorgere di una stirpe semidivina di uomini eroi. Sono coloro che combatterono sotto le mura di Tebe e di Troia. Coloro che, come Achille e Ulisse, vantavano una sorta di canale di comunicazione diretto col divino sentendo la sua presenza in ogni loro azione. Ad esempio, nel momento in cui la lite tra Achille ed Agamennone stava per sfociare in un duello armato, Atena si palesa al Pelide esortandolo a placare la sua ira: “Su, cessa la lite, non sguainare con la mano la spada, ma a parole rimprovera dicendo come sarà. Così infatti ti dico e questo si compirà: a te, un giorno, tre volte tanto splendidi doni saranno offerti per questo sopruso. Tu dunque trattieniti ed a noi obbedisci”.

Ma la stirpe eroica viene superata da quella rappresentata dal metallo più vile: il ferro. Quella del ferro è l’età delle angosce e dei malanni in cui il totale pervertimento spirituale spinge gli uomini ad agire con frode. Canta Esiodo nelle Opere e giorni: “Non mi fosse toccato mai di vivere con i mortali della quinta stirpe, ma di morire prima o nascer dopo”. Questi, infatti, sono uomini che “né da fatica e pena avranno posa durante il dì”. Secondo Platone, sono uomini che “rivelando e imitando l’antica indole attribuita ai Titani” e regredendo a quella medesima condizione, vivono “una vita eternamente penosa senza aver mai ristoro dai mali”. Ed il modello di società nel quale operano non sarebbe altro che una riaffermazione del titanismo: una rivincita dei Titani riemersi dall’esilio occidentale nel quale erano stati rinchiusi dalle divinità olimpiche.

Su queste basi etico-filosofiche, Friedrich G. Jünger ebbe modo di stigmatizzare la natura puramente titanica dell’homo faber moderno con la sua efficiente irrequietezza: un “uomo senza tempo” che dedica la propria vita solo al lavoro trasformandola in una prigione dalla quale si può evadere solo con la morte. Quest’uomo senza tempo non conosce il valore del non lavoro meccanico e, secondo il più celebre fratello Ernst (anch’egli attento osservatore della natura titanica della società moderna), ha irrimediabilmente perso anche ogni nozione di ciò che era(è) il “tempo sacro”: l’unico tempo reale, il tempo del divino, l’istante statico/estatico in cui il tempo non scorre.

La Tradizione indù è altrettanto chiara su questo tema. É scritto nella Bhagavad Gita che gli uomini dell’età di Kali “dediti ad una cura affannosa e smisurata che termina solo con la morte, affermano che il bene supremo consiste nel soddisfacimento dei desideri e sono convinti che questo mondo sia l’unica realtà”.

Ovidio riporta a quattro le età in cui si suddivide il ciclo umano attuale. Tuttavia, sottolinea ancora una volta come l’età del ferro sia caratterizzata dalla navigazione (il mare veniva tradizionalmente ritenuto come espressione di mutevolezza, corruttibilità e illusione), dalla spartizione del suolo coltivabile e dallo sfruttamento dei giacimenti minerali.

La decadenza umana si riflette inevitabilmente nella decadenza delle istituzioni politiche. Se nel mondo cantato da Omero la città era comunità organica fondata sulla condivisione di un preciso destino storico (sul ruolo della famiglia e sul riconoscimento del potere unico di un capo), intorno all’anno 1000 prima di Cristo, dalla penisola greca (povera di risorse naturali e di terre coltivabili) gruppi di popolazione iniziarono a trasferirsi sia ad Oriente che ad Occidente fondando diverse città nel loro tragitto (dalle colonie greche nel nord del Mar Nero a Marsiglia). Con l’ampia circolazione di materie prime e manufatti e, di conseguenza, con lo sviluppo dei mercati ebbe origine l’arte della crematistica (l’arte di accumulare ricchezza). Ma ad arricchirsi non furono solo i nobili. Infatti, iniziò a formarsi un ceto di “villani rifatti” capaci di comprare terre, allevare bestiame e procurarsi oggetti di lusso che rivendicava un ruolo di rilievo anche nella gestione della cosa pubblica.

Non a caso, secondo Platone, i metalli nelle quali vengono suddivise le età del ciclo umano, si riflettono anche nel sistema delle caste (o delle attitudini naturali presenti nell’uomo) nella quali la Tradizione indoeuropea usava suddividere la propria società. A seconda della prevalenza dell’una o dell’altra, Platone traccia le linee dello Stato più o meno conforme alle norme etiche e divine di giustizia. La forma statuale corretta è la monarchia o l’aristocrazia (il governo dei reggitori filosofi). Mentre le sue degenerazioni si fondano su diversi gradi di corruzione. La prima di esse è la timocrazia nella quale il desiderio di onore e gloria fa prevalere l’aspetto militare su quello spirituale.

Se si volesse utilizzare tali parametri per interpretare la storia di Roma, si potrebbe affermare che ai regni di Romolo e Numa (sovrani e sacerdoti), e soprattutto a quello di Numa (la cui figura di sovrano, sacerdote e legislatore ricorda non poco quella del Profeta Muhammad nell’Islam), ha fatto seguito il regno di Tullio Ostilio che, essendosi concentrato soprattutto nell’arte della guerra mettendo in secondo piano l’ambito spirituale, ha rappresentato una sorte di degenerazione rispetto ai primi.

Tornando a Platone, alla timocrazia fanno seguito l’oligarchia (in cui pochi concentrano la ricchezza nelle loro mani) e quella democrazia che si lega al potere del tipo umano individualista, volubile e nel quale prevalgono gli istinti più bassi e l’insaziabile brama di libertà. Ed è proprio l’eccesso di libertà che conduce inevitabilmente al bisogno della tirannide. Se la talassocrazia è il più forte sostegno alla democrazia, la degenerazione di questa in tirannia fa combaciare la lista dei tiranni con la carta dei grandi porti dell’Antica Grecia, come riporta lo storico francese Gustave Glotz.

La democrazia ateniese venne a più riprese sbeffeggiata già nelle commedie teatrali di Aristofane Le vespe e I cavalieri. Qui il campione della democrazia viene descritto come un tipo umano in cui trionfano tutte le caratteristiche più abiette. Esso è avido, perverso, arrogante, crudele, adulatore e dissimulatore. E può essere sconfitto solo da chi possiede le stesse orrende qualità ma in misura maggiore. Le suddette caratteristiche della democrazia combaciano anche con quelle riportate dallo Pseudosenofonte. I tratti essenziali della democrazia ateniese sarebbero infatti lo strapotere delle canaglie, l’immoralità, la miseria culturale e l’irresponsabilità eretta a sistema, l’eccessiva libertà, la politica di rapina a danno delle città alleate. Tutti aspetti ripugnanti che vengono ritenuti come caratteristiche imprescindibili di un sistema fondato sull’egemonia marittima (ciò su cui, guarda caso, si è basato il potere egemonico globale prima britannico e successivamente nordamericano).

Interessante a questo proposito l’analisi della figura di Tersite (un personaggio dell’Iliade che il filologo Claudio Mutti, nella sua opera Testimoni della decadenza, definisce “un democratico ante litteram”)3. Questi, moralmente spregevole e fisicamente deforme, mette in discussione il potere regale ma Ulisse, ribadendo la necessità che il capo sia uno solo, lo apostrofa nel seguente modo: “Io dico che non c’è nessuno peggiore di te, fra quanti con gli Atridi vennero ad Ilio”.

I poemi omerici meritano particolare attenzione visto che, in qualità di prima rivelazione religiosa dell’Europa, rendono alla perfezione l’idea geografica del mondo antico. In essi appare evidente come un greco mai avrebbe utilizzato il termine “occidentale” per autodefinire se stesso. Questo perché l’“homo religiosus”, di una qualsiasi civiltà tradizionale abitante il vasto continente eurasiatico (dalla Cina alla Persia, fin proprio all’Antica Grecia), ha sempre considerato la sua Patria come il “centro del mondo”.

Giunto finalmente ad Itaca dopo lungo peregrinare, Ulisse, risvegliatosi sulla riva del mare ed incapace di riconoscere immediatamente la sua isola avvolta nella nebbia, si avvicinò ad un giovane pastore incontrato lì vicino e domandò: “Quale terra è questa, che luogo è, quali uomini ci sono?”. Il pastore, in realtà Pallade Atena sotto mentite spoglie, replicò: “Moltissimi la conoscono, quanti abitano verso l’aurora e il sole, e quanti abitano dall’altra parte, verso la tenebra scura” (Odissea, Canto XIII, 239-241).

L’Iliade, inoltre, ci fornisce la migliore testimonianza di quella che era la geografia sacra dell’Antica Grecia attraverso la raffigurazione dello scudo di Achille forgiato da Efesto. Questo era suddiviso in cinque differenti zone circolari contenenti differenti rappresentazioni. Nella prima zona, la più centrale, è raffigurato il cielo (lo spazio del Divino); nella seconda si trovano due città, una in pace ed una in guerra, a rappresentare l’amministrazione civile e militare; nella terza zona si intravedono scene che richiamano l’attività agricola (semina, raccolto, vendemmia); la quarta zona rappresenta scene di vita pastorale; mentre nella quinta zona, l’ultima, si trova il grande fiume Oceano, il mare che avvolge e chiude la terra.

Oltre a fornire una esemplare conferma delle teorie di Georges Dumézil sullo schema trifunzionale (Re-Sacerdoti/guerrieri/contadini) delle società indoeuropee, la raffigurazione dello scudo di Achille può essere utile per lo scopo che ci si è prefissati in questa breve riflessione.

La quinta zona dello scudo è quella dell’Oceano. Al di là di esso vi è la “terra dei morti”: luogo che le civiltà tradizionali dell’Eurasia pongono sempre ad “Occidente”. Ulisse, nel Canto XI dell’Odissea, giunge all’Ade che si trova oltre i “confini dell’Oceano dalla profonda corrente”. La sua collocazione occidentale è resa evidente dal fatto che, al ritorno dalla terra dei morti, Ulisse si dirige verso l’isola Eèa dove è la casa di Aurora dalle dita rosa e “gli spiazzi dei cori e il quotidiano levarsi del sole” (Canto XII, 3-4).

Questa costruzione tradizionale della grecità implica il fatto che tutto ciò che appare al di fuori della rappresentazione geografica sacrale, e quindi all’infuori della stessa società, venga concepito come assolutamente estraneo e “barbaro”.

Una concezione del tutto simile si ritrova, ancora una volta, nella civiltà cinese. Qui lo spazio della società, l’unico in cui l’uomo può realizzarsi, è rappresentato ancora una volta su cinque livelli, sebbene la forma sferica venga sostituita da quella quadrata. Nel livello più alto si trova il Dominio Reale (lo spazio del Sovrano divinizzato). Nei livelli inferiori si trovano i vassalli ed i sudditi, mentre ai confini del livello più basso stanno i barbari. L’intero universo viene rappresentato come un carro: la base quadrata è la terra, mentre il baldacchino circolare è il cielo. Vi sono cinque segni cardinali: Nord, Est, Sud, Ovest e Centro. Un’idea che richiama quella iranica secondo la quale lo spazio geografico accessibile all’uomo viene suddiviso in sette regioni. Secondo questo modello spaziale, il cerchio centrale è costituito dal paese iranico intorno al quale vengono raggruppati altri sei cerchi, tangenti tra loro e uguali di raggio, rappresentanti, a nord, il mondo slavo-bizantino ed il Turkestan; a sud, l’Arabia e l’India; ad ovest, la Siria e l’Egitto; ad est, la Cina e il Tibet. Ora, secondo la tradizione cinese, negli angoli sperduti del carro (la terra), non ricoperti dal baldacchino (il Cielo immagine del divino) stanno gli esseri mostruosi. É ad essi che appartiene l’Occidente.

Ancora una volta, l’idea che l’Occidente sia una sorta di “terra dei demoni” ha un suo riscontro in Omero. L’antro di Scilla, descritto nel Canto XII dell’Odissea, è “rivolto verso la tenebra”. Il filosofo neoplatonico Porfirio nella sua particolare esegesi del passo omerico in cui viene descritto l’antro delle ninfe (Odissea, Canto XIII, 102-112) con due porte, “l’una verso Borea e l’altra verso Noto”, afferma: “le parti boreali convengono alla stirpe mortale, cadente sotto la generazione; mentre le parti australi a quella [che ha un carattere] più divino; parimenti le parti di Oriente agli dèi e quelle di Occidente ai demoni”.

Lo stesso Impero romano, nel quale era nato e vissuto Porfirio (qualcosa di sostanzialmente meno conforme ai canoni tradizionali della grecità), anche dopo la divisione operata da Diocleziano, ha continuato a considerarsi centro e mondo. Senza considerare che anche nella tradizione cristiana è ad Occidente che cade Lucifero, tanto che il rito battesimale ortodosso prevede che il sacerdote rivolga la mano verso ovest quando pronuncia la domanda: “rinneghi Satana?”.

L’invenzione dell’Occidente (come oggi lo conosciamo) è qualcosa di storicamente ben più recente. Essa è ascrivibile al momento in cui il mondo anglosassone ha iniziato a considerarsi come qualcosa di sostanzialmente nuovo e diverso rispetto all’Europa. Di fatto, sulla base di un’antica leggenda secondo la quale il popolo inglese sarebbe diretto discendente di una delle dieci tribù perdute di Israele, nell’Inghilterra post-scismatica avvenne una sorta di processo di autoidentificazione con la “Nuova Israele” che cercava di presentare l’isola come un nuovo mondo (o una nuova società e cultura) che si opponeva al vecchio e corrotto mondo europeo.

Tale atteggiamento si è perpetuato in quei gruppi puritani estremisti che, partendo proprio dall’Isola britannica e nella profonda convinzione di rivivere l’esperienza biblica dell’Esodo e del Patto con un Dio esclusivo e razzista, colonizzarono il Nord America facendo strage della popolazione autoctona. In questo contesto, il concetto protestante di “predestinazione” raggiunge il suo apice nell’elaborazione dell’idea di “destino manifesto”: una consacrazione “provvidenziale” del neonato popolo americano che, autoidentificandosi in una sorta di “Messia collettivo” (il passaggio dal “Messia individuale” al “Messia collettivo” è un puro prodotto della Modernità: è una forma di “secolarizzazione” del messianismo), impone una trasformazione del mondo a sua immagine e somiglianza. L’“Occidente” si è così venuto ad identificare in una concezione filosofica del mondo quasi opposta a quella europea. Alla misura si è opposta la dismisura e il gigantesco, al comunitarismo l’individualismo esasperato e quel liberal-capitalismo che oggi è divenuto dogma incontrovertibile e inconfutabile dopo aver superato i suoi rivali ideologici (fascismo e comunismo).

Alla luce di quanto affermato fin qui, appare evidente come l’identificazione tout court dell’Europa con l’“Occidente” abbia altresì una natura esclusivamente ideologica (l’Europa è geograficamente collocata nell’emisfero orientale). Questo, inoltre, ha ben poco a che fare anche con le modalità attraverso le quali l’Europa si è tradizionalmente rapportata all’Asia ed all’Oriente in generale (Egitto ed Etiopia incluse). L’interesse europeo per l’Asia, infatti, ha origine antica (basti pensare alla marcia orientale di Alessandro Magno o al fatto che tra Greci e Persiani, per quanto frequentemente in guerra tra loro, regnava un reciproco rispetto culturale ben descritto anche nelle opere di Erodoto) ed era impostato su un modello intellettuale decisamente più “paritario” rispetto a quello prodotto dal colonialismo moderno fondato sugli stereotipi di superiorità razziale e culturale e sulla costruzione di “imperi” dal carattere spaziale meramente quantitativo.

La trasfigurazione culturale dell’Europa moderna ed il processo di progressiva assimilazione come periferia dell’Occidente anglo-americano culminato con le due guerre mondiali ha creato la contrapposizione ontologica ab eterno tra Occidente e Oriente (tra civiltà e barbarie). Un Oriente nel quale oggi viene inserita anche la Russia nonostante già Caterina II avesse affermato la sua natura di “potenza europea”. Alla Russia non viene infatti perdonato un atteggiamento verso l’Oriente del tutto “premoderno”. L’Oriente per la Russia non è un “totalmente altro”. Essa, oltre al marchio infamante di essere profondamente influenzata dal mondo turco-mongolo (a questo proposito sarà bene ricordare che vi fu chi nel Medioevo europeo elogiava i Mongoli per aver distrutto il Califfato), è colpevole di non aver trattato i popoli orientali assimilati nel suo impero con le modalità proprie del colonialismo europeo. La Russia, al contrario, prendendo ad esempio la tradizione romana espressa dalla divinità tipicamente italica di Giano bifronte (il cui tempio rimaneva chiuso in tempo di pace ed aperto in tempo guerra), ha scelto di guardare simultaneamente ad Oriente ed Occidente.

A questo proposito, lo storico Aldo Ferrari ha affermato: “La Russia non ebbe ma fu un impero. Un impero continentale e non marittimo, che procedeva sulla base di spinte espansionistiche tradizionali più che modernamente coloniali. La storia della penetrazione russa in Asia si distingue da quelle delle altre potenze europee appunto per essere storia, lentamente maturata nel corso dei secoli, di rapporti costanti, pacifici o bellici poco importa, fra Paesi confinanti4.

1M. Polia, Reges Augures. Il sacerdozio regale nella Roma delle origini, Cinabro Edizioni, Roma 2021, p. 240.

2G. De Giorgio, La Tradizione Romana, Edizioni Mediterranee, Roma 1989, p. 99.

3C. Mutti, Testimoni della decadenza, L’Arco e la Corte, Bari 2022, p. 73.

4A. Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Mimesis, Milano 2012, p. 13.

Daniele Perra è saggista e studioso di geopolitica. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Dal 2016 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici.” e con il relativo sito informatico. E’ autore dei libri Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione (NovaEuropa 2019), Dalla geografia sacra alla geopolitica (Cinabro Edizioni 2020), La Terra dei puri. Ideologia e geopolitica del Pakistan (Anteo Edizioni 2021), Stato e Impero da Berlino a Pechino (Anteo Edizioni 2022).

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